201705.10
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analisi comparata sull’obbligo di origine per latte , pasta e riso

Le ultime iniziative del legislatore italiano: “latte” “pasta” “riso” “sede dello stabilimento”


  • Premessa

Mai come in questi ultimi mesi il legislatore italiano si è segnalato per le numerose iniziative nel settore food law: tutte queste iniziative concernono in maniera più o meno diretta la materia della indicazione di origine: tre hanno carattere verticale (applicandosi ai settori “latte” “pasta” “riso”) ed una ha carattere orizzontale (applicandosi a tutti i prodotti) e si tratta della   “sede dello stabilimento”[1].

Una sola di queste potrebbe essere già in vigore[2].

Non ci si occuperà qui del merito delle singole disposizioni (che risulta, per vero, già discusso da MISE con le associazioni di categoria) ma di alcune sintetiche osservazioni di sistema che rendono questo mini corpo normativo di difficile inquadramento (e quindi di difficile interpretazione).


  1. Obbligatorietà, volontarietà e sperimentazione

Tutti e quattro i provvedimenti impongono la obbligatorietà della indicazione: sono ben note le riserve della Commissione UE, la quale ha sempre ritenuto sufficiente al raggiungimento dello scopo (e cioè, è bene ricordarlo, insieme, tutela del consumatore e leale e trasparente concorrenza tra imprese) una informazione volontaria, affidando al mercato poi il discrimine tra “ buoni e cattivi” per usare un linguaggio prosaico che però ha un suo fondamento: si può essere “buoni” commercializzando un prodotto a prezzo molto basso, pur non indicando la origine della materia prima, poiché si rinuncia ad una parte del margine e si può essere               “cattivi”  commercializzando a prezzo molto alto un prodotto con la indicazione della materia prima ma lucrando margini elevati. In effetti la Commissione ha sempre ritenuto che l’incidenza sul prezzo sia un fattore rilevante nella scelta legislativa, anche ai fini della tutela del consumatore (e di qui la attribuzione spesso della qualifica di sperimentale)[3].

Nel contempo la Commissione ha sempre auspicato e promosso le campagne di informazione per permettere anche al consumatore meno avveduto di effettuare scelte consapevoli di acquisto (ovvero, nel caso di specie, di apprezzare la differenza sullo scaffale tra un prodotto che indica la origine della materia prima e un prodotto che la omette).

Altrettanto nota è invece la attitudine dello Stato Italiano ad operare individuando il precetto per poi istituire un apparato di sanzioni (penali/ammnistrative) che porta necessariamente con sé un appesantimento delle procedure di  controllo e  accertamento[4].

Il carattere neoprotezionistico (per usare una parola di moda) di questa impostazione ne rende peraltro non agevole la applicazione concreta dando ampi spazi di difesa in sede giudiziale.

Preso atto comunque di tale scelta, va segnalato che i tre provvedimenti verticali rivendicano un carattere “sperimentale”[5]  e tutti e tre prevedono un effetto di inefficacia immediata nel caso in cui la Commissione adotti gli atti esecutivi di cui all’art. 26.3  Reg. 1169/2011[6].

Non è peraltro chiarito a quali parametri sia legato l’esperimento, ovvero quali siano gli obiettivi al cui raggiungimento (o meno) sarà legato l’esito.

Appare quindi lecito chiedersi se sia conforme a principi costituzionali (prima ancora che al fondamentale principio di certezza del diritto) che una norma che prevede pesanti sanzioni        (non potendosi escludere neppure ricadute penalistiche) sia definita “sperimentale”, quando in realtà dal testo si ricava espressamente solo  che è “provvisoria”.

Ove si consideri che, in base al citato art. 26 Reg. UE 1169/2011, la Commissione potrebbe confermare il proprio orientamento, optando per disciplinare  le modalità di una indicazione  volontaria  (e non obbligatoria)  sulla origine  della materia  prima, sembra doversi giungere alla conclusione che il  legislatore italiano concentra doverosamente la propria attenzione su chi viola la legge,  non tenendo forse debitamente conto dell’operatore che vuole osservarla.


  1. L’origine e la “vigente normativa europea”

In “latte” e “riso” si legge che “Resta fermo il criterio della acquisizione della origine ai sensi della vigente normativa europea, mentre in “pasta” la medesima disposizione appare aggiornata con il puntuale richiamo al Reg. (UE) 952/2013, Nuovo Codice Doganale della Unione.

Questo richiamo appare anzitutto fuorviante perché (come già avvenuto in altri testi legislativi[7]) il rinvio ultragenerico non permette di distinguere tra origine  non preferenziale e origine preferenziale. Tale distinzione è invece fondamentale nella applicazione delle disposizioni del Codice Doganale: perciò , nella incertezza, ci  si potrebbe trovare a  valutare quale regola di origine debba applicarsi  nel caso in cui  il Paese di provenienza  aderisca ad un accordo preferenziale con la Unione, con la conseguente applicabilità di  regole (come il cumulo bilaterale/diagonale/regionale/totale o integrale) che possono portare ad una individuazione della origine probabilmente molto distante dalle intenzioni del legislatore.

D’altra parte la disposizione appare ridondante, laddove le norme doganali UE sulla determinazione della origine sono di applicazione necessaria negli scambi da e per la Unione.

Per converso, quanto ai prodotti alimentari, l’applicazione negli scambi intracomunitari  delle norme doganali sulla determinazione della origine avviene proprio in base al reg. 1169/2011         (in cui si parla di “paese di origine” e, per esclusione, di “luogo di provenienza” – cfr art. 2.2g).

La disposizione sembra quindi più indirizzata a rassicurare la Commissione, che a fornire una regola di condotta, posto che il problema largamente dibattuto in questo periodo rimane quello della corretta applicazione del principio di ultima lavorazione sostanziale atta ad attribuire la origine della merce, il quale ha particolare rilevo nel campo dei prodotti alimentari trasformati (ed a tale problema neppure in queste sedi viene data appunto soluzione).


  1. Sanzioni

Sotto questo aspetto l’ approccio è piuttosto articolato ed infatti:

  • Per “latte” si rinvia all’art. 4.10 della legge 2011/4 (con riferimento a tale norma si veda la nota 4 e risulta curioso il rinvio alle sanzioni di una norma il cui precetto, stante la mancata notifica alla Commissione, non è vigente).
  • Per “pasta” si richiamano “le sanzioni previste per le violazioni all’art. 26 del regolamento (UE) 1169/2011”: allo stato il rinvio appare indecifrabile.
  • Per “riso” si richiamano “le sanzioni previste all’art.18 Decreto Legislativo 27/1/1992 n. 109”: si tratta di una reviviscenza che forse presuppone un ulteriore contestuale provvedimento di aggiornamento.

Un capitolo a parte merita “sede dello stabilimento”.

Come noto si tratta di una norma nazionale che aggiunge alle indicazioni obbligatorie di cui al Reg. UE 1169/2011, la indicazione “della sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento”.

Per restare sul tema delle sanzioni [8], all’art. 5 il testo, nelle diverse articolazioni di tre commi, si apre con la clausola di riserva penale “Salvo che il fatto costituisca reato …..” seguito da una profilazione soggettiva e cioè “….chiunque, essendovi tenuto per legge……..”.

Si tratta di una formula che è utilizzata in altri illeciti in cui l’autore, se pure non predeterminato nominativamente, può essere individuato nell’ambito di alcune categorie (illeciti a soggettività ristretta).[9]

Orbene, nella applicazione inevitabile del principio per cui ubi lex voluit tamen dixit, sembra doversi concludere che il legislatore voglia estendere il profilo soggettivo del contravventore ben oltre a quanto ci si sarebbe potuto attendere.

Se infatti, come espressamente enunciato, la norma nazionale aggiunge la indicazione in discussione tra le informazioni obbligatorie  in base al reg. UE 1169/2011, chi risponde della violazione non può che essere l’operatore del settore alimentare responsabile delle informazioni (OSARI) di cui all’art.8.1[10].

In argomento potrebbe essere utile ricordare una circolare esplicativa del Reg. UE 1169/2011, in cui MISE ebbe a disporre che, nel caso di private label, il nome e indirizzo di OSARI avrebbe dovuto necessariamente essere quello  del titolare del marchio che compariva sul packaging [11]. Questa posizione sarebbe direttamente conseguente a quanto  emerso nel gruppo di lavoro presso DG Santé (peraltro solo a maggioranza) ed in effetti molti argomenti sembrano smentirla [12].

Così come in quel caso, anche in questo la individuazione della responsabilità non appare fondata su basi giuridiche univoche o comunque tali da consentire valutazioni  a priori  (come vorrebbe la regola).

Sembra opportuno ricorrere anche ad un  ulteriore argomento  testuale: si legge infatti all’art 2.2 g) reg. UE 1169/2011 che “il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare  apposto  sulla etichetta non costituisce una indicazione del paese di origine  o del luogo di provenienza del prodotto  alimentare  ai sensi del presente regolamento”.

Ne consegue anzitutto che, così come appunto per il marchio si è da tempo eliminata la preesistente necessaria connessione con l’azienda[13], allo stesso modo la indicazione di OSARI è indipendente dalle responsabilità di produzione, ovvero, il titolare del marchio e l’effettivo responsabile della produzione (ove diverso come nel caso di private label), ben possono convenire che sulla etichetta come OSARI compaia il nome e l’indirizzo dell’uno o dell’altro  essendo  necessario e sufficiente che sulla etichetta compaia la indicazione di chi si assume la responsabilità sulle informazioni nei confronti del consumatore.

Così stando le cose, ovvero essendo per così dire dematerializzata la indicazione di OSARI, risulta consequenziale  ciò che dice l’art. 2.2 g)  laddove ne  sancisce la irrilevanza ai fini della origine.

Venendo quindi alla bozza “sede dello stabilimento di produzione” , va rilevato che con essa si introduce a livello nazionale una indicazione diversa e ulteriore rispetto a quelle previste dal Reg. UE 1169/2011 e quindi ad essa non si applica la disposizione di cui all’art. 2.2 g), che invece è appunto operativa per l’indicazione di OSARI  (nome+ indirizzo).

Ne consegue ulteriormente che la indicazione della sede dello stabilimento di produzione o, se diversa, di confezionamento, ai sensi del testo in discussione, costituirà indicazione di origine con tutte le conseguenze potenziali in termini di ingannevolezza ed evocazione[14].

Ne discende ulteriormente che la dizione “….chiunque , essendovi tenuto per legge……..” sembrerebbe fuorviante poiché solo OSARI potrebbe  essere responsabile per la violazione della norma sulla  indicazione obbligatoria della sede dello stabilimento.


  1. La clausola di mutuo riconoscimento

In “latte” e “riso” si legge la seguente clausola:

  • Le disposizioni del presente decreto non si applicano ai prodotti di cui all’allegato 1 legalmente fabbricato o commercializzati in un altro Stato membro della Unione europea o in un Paese terzo”.

In “pasta” si legge:

  • Le disposizioni del presente decreto non si applicano ai prodotti legalmente fabbricati o commercializzati in un altro Stato membro della Unione europea o in Turchia, né ai prodotti legalmente fabbricati in uno stato membro dell’EFTA, parte contraente dell’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE)”.

In “sede dello stabilimento” si legge:

  • Le disposizioni di cui al presente decreto non si applicano ai prodotti alimentari preimballati in conformità alle disposizioni del regolamento (UE) n.1169/2011, provenienti da un altro Stato membro della Unione europea o in Turchia , né ai prodotti legalmente fabbricati in uno stato membro dell’EFTA , parte contraente dell’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE)”.

Non mette qui in conto di esaminare quale sia il senso dell’uso di diverse dizioni né quali potrebbero essere le conseguenze applicative di tali diversità, ma ancora una volta pare potersi dire che la intenzione del legislatore italiano sia in qualche modo cautelativa nei confronti della Commissione UE ovvero l’obiettivo sia di introdurre gli elementi  ritenuti più  idonei a sollecitarne  il consenso (più che di configurare  il precetto).

Ciò però non giova all’interpretazione neppure nel caso di specie poiché da un lato non era necessaria questa clausola laddove si dovesse confermare il principio giurisprudenziale di libera circolazione delle merci e dei servizi operativo nell’ambito unionale sin dalla notissima sentenza CGE Cassis de Dijon, dall’altro va ricordato che la Commissione ha dato disposizioni  concernenti la applicazione pratica del mutuo riconoscimento distinguendo tra una ipotesi di clausola semplificata ed una clausola più complessa nella quale ultima viene disciplinato il c.d. diritto di scrutinio che lo Stato membro di destinazione può esercitare sull’equivalenza tra il grado di protezione garantito dal prodotto in esame nello Sato di provenienza  e quello garantito dalle norme nazionali [15].

Non si ha modo di sapere se, e in che termini, lo Stato Italiano abbia  esercitato (o si riservi di esercitare) il diritto di scrutinio, ma, considerato che l’obiettivo primario rivendicato è pur sempre la tutela del consumatore, sembra lecito un  approfondimento.

Approfondimento che appare vieppiù opportuno quanto alle clausole “latte” e “riso”, in cui la reciprocità viene estesa a qualsiasi “Paese terzo”, e quindi a livello globale, come se a priori si fosse operato uno “scrutinio in bianco” quanto al grado di protezione garantito in argomento  al consumatore in ciascun  Paese del mondo[16].

Se in effetti le norme in argomento hanno come fine primario la tutela del consumatore, sembrerebbe in controtendenza ammettere al mutuo riconoscimento prodotti provenienti da Paesi che garantiscono un livello di protezione del consumatore molto inferiore a quello prospettato dalla norma nazionale; per rimanere poi all’ambito comunitario (sicuramente armonizzato quanto alla tutela del consumatore) sembra comunque contraddittorio ammettere che possa essere commercializzato in Italia un prodotto alimentare proveniente dalla Danimarca che non reca la “sede dello stabilimento”, se in Italia la norma è introdotta per la tutela del consumatore  (e non per la protezione delle produzioni nazionali): il problema invece non esisterebbe  in assenza della clausola di mutuo riconoscimento  per l’applicazione de plano della giurisprudenza “Cassis de Dijon “[17].

 

Conclusioni

Conclusivamente può riportarsi un brano della Comunicazione della Commissione citata alla nota 15:

“In effetti, i principi della certezza del diritto e della tutela dei privati esigono che, nelle materie disciplinate dal diritto comunitario, le normative degli Stati membri abbiano una formulazione chiara, precisa e non equivoca, tale da consentire agli operatori interessati di conoscere i propri diritti e i propri obblighi e alle giurisdizioni nazionali di garantirne l’osservanza”.

Sono ben comprensibili le difficoltà di redigere norme obbligatorie che garantiscano la conformità all’ordinamento dell’Unione quando l’obiettivo sostanziale è la promozione dei prodotti nazionali; invece l’obiettivo che dovrebbe sicuramente accomunare l’ordinamento della Unione  con quello nazionale è la tutela del consumatore e di una corretta e trasparente concorrenza.

Su queste basi , una volta condiviso il principio per cui la certezza del diritto è una garanzia non solo per gli operatori interessati ma anche per i consumatori, i risultati potrebbero essere raggiunti con una disciplina a carattere volontario che eventualmente regolamenti obbligatoriamente solo le modalità  delle indicazioni.

In questo contesto potrebbero essere di grande aiuto i Codici di Condotta, che sono disciplinati normativamente dal Codice del Consumo.  In essi potrebbe, tra l’altro, trovare spazio, per singoli prodotti, una normativa autoregolamentare sul concetto di ultima lavorazione sostanziale e MISE/ MIPAF potrebbero promuoverne la adozione; data la sua natura volontaria (sia nel merito che come adesione) essa avrebbe comunque una valutazione in sede UE  ben diversa dalle norme statuali cogenti di cui qui si discute. [18]


[1] Le altre tre norme sono commentate sulla base delle bozze diffuse.

[2] In data 9/12/2016 viene emanato il decreto interministeriale (MISE-MIPAF) “Indicazione della materia prima per il latte e i prodotti lattiero caseari in attuazione del regolamento (UE) n.1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumator”; esso è pubblicato sulla G.U. 19/1/2017 e prevede l’entrata in vigore per il 19/4/2017 ( d’ora innanzi D.Intm).

In data 30/1/2017 (prot.n. 0029238) MISE emana una circolare recante disposizioni applicative del D.Intm. Tra il 30 gennaio ed il 24 febbraio si sussegue l’emanazione di una serie di circolari di MISE e MIPAF, l’ultima delle quali del 24.02.17 a firma congiunta di MISE e MIPAF viene poi pubblicata in G.U. il 03.04.17 (d’ora innanzi Circolare). In data 28/3/2017 (prot. n. 990), MIPAF posta sul proprio sito un provvedimento denominato “Decreto recante Linee guida per le indicazioni in etichetta dell’origine e del latte usato come ingrediente nei prodotti lattiero caseari”; nessuna indicazione viene data sulla entrata in vigore (d’ora innanzi decreto MIPAF 1).  In data 31.3.2017 (prot. 1076) MIPAF emana un nuovo Decreto (d’ora innanzi MIPAF 2) recante modifiche a MIPAF 1 nonché una data di entrata in vigore a 60 giorni dalla pubblicazione di MIPAF 1 sul sito (data allo stato sconosciuta). Presumibilmente in data 20.4.2017, MIPAF pubblica sul proprio sito un documento (d’ora innanzi “Linee Guida”)  denominato “Linee Guida recante istruzioni operative per l’indicazione dell’origine del latte in etichetta” “recante tra l’altro modifiche a MIPAF 1 e MIPAF2”  nonché stabilisce una data di entrata in vigore dei decreti MIPAF 1-2 a 60 giorni dalla pubblicazione di Linee Guida sul sito.

[3] Si veda in proposito l’art. 26.7 del regolamento 1169/2011 il quale nell’indicare i criteri per le nuove norme in materia di indicazione obbligatoria della origine, così si esprime: “Le relazioni di cui ai paragrafi 5 e 6 prendono in considerazione l’esigenza del consumatore di essere informato, la fattibilità della fornitura dell’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza e un’analisi dei relativi costi e benefici, compreso l’impatto giuridico sul mercato interno e l’impatto sugli scambi internazionali”.

[4]  Tale è il caso della legge 4/2011 (c.d. legge Galan), citata nelle premesse dei provvedimenti in commento, pur essendo allo stato sostanzialmente inapplicabile (per mancata previa notifica) e della legge 350/2003 (c.d tutela del made in Italy) per cui sono pendenti due procedimenti di pre-infrazione EU/Pilot di fronte alla Commissione.  

[5] Questa la scadenza di tali “esperimenti”: 31/3/2019 (latte) – 31/3/2019 (pasta) – 30/4/2020 (riso).  

[6] Art. 7 per tutti.

[7] Ad esempio proprio nell’art. 4.49 della legge 350/03.

[8] Sull’ argomento si veda Fabio Brusa “Etichettatura: fra eccessi informativi e toponimi” (Alimenta 5/12).

[9] Si tratta, ad esempio, del caso di omessa comunicazione/deposito/denunciaprevisto dall’art. 2626 cc a carico, tra l’altro, degli amministratori e sindaci.

[10] OSARI è richiamato espressamente anche nel testo in oggetto all’art 4.4.

[11] Circolare MISE 30/9/2014.

[12] In effetti l’art. 8.1 dispone “L’operatore del settore alimentare responsabile delle informazioni sugli alimenti è l’operatore con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito nella Unione, l’importatore nel mercato dell’Unione. L’art. 9.1 h ) impone, tra le indicazioni obbligatorie “il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare di cui all’articolo 8 paragrafo 1)”. A fronte di ciò, l’affermazione sostanziale che pare costituire il principio base per tutte le varie esemplificazioni evidenziate nei testi da MISE  trasmessi è la seguente, “…………….under whose name or business name the food is marketed“ means the name /business name /trademark /brand name “  that appears to final consumers in principal field of vision of a package”. Al proposito si può osservare che all’’evidenza la lettera della legge non parla di marchio e quindi la interpretazione letterale non consente di ritenere ricompreso in esso il “marchio”. Dal punto di vista sistematico non si può ritenere ricompreso nella norma il  “marchio”  poiché (i) altrove quando lo ha ritenuto, il legislatore comunitario nello stesso reg. UE 1169/2011 ha utilizzato la parola “marchio”   (in particolare si veda all’interno delle Definizioni di cui all’art.1 i) e j); (ii) l’art. 8.1 identifica un soggetto  (ed in effetti anche l’importatore è un soggetto) e  il “marchio” non è un soggetto mentre lo sarebbe il “titolare del marchio”; (iii) allo stesso modo l’art. 9.1 h) richiede che di questo soggetto sia indicato l’indirizzo  e il marchio non ha indirizzo mentre lo avrebbe il “titolare del marchio”. Posto che né il dato letterale, né quello sistematico giustificano la interpretazione estensiva al “marchio”, resta da chiarire in base a quale criterio interpretativo si sia ritenuta proponibile  tale estensione.

[13] In Italia a partire  dal  D.lgv  480/2992 con il recepimento della direttiva CEE /104/89.

[14] Si pensi al caso di uno stabilimento di (solo) confezionamento per merceologie affini, se non identiche, situato in una zona geografica coperta da Indicazioni Protette.

[15] Comunicazione interpretativa della Commissione 2003/C 265/02  cui ha fatto seguito il regolamento CCE 764/2008 e la Comunicazione della Commissione agli altri  organi UE (2015) 550.

[16] Fermo restando che la competenza a concludere accordi di mutuo riconoscimento spetterebbe alla UE e non agli Stati membri ed ancor meno ad articolazioni del potere esecutivo di questi ultimi.

[17] Se invece l’obiettivo fosse stato quello di delimitare territorialmente l’efficacia delle nuove norme anche ai prodotti destinati alla esportazione, sarebbe stato necessario anzitutto chiarire se tale limitazione vale anche negli scambi intracomunitari (che non sono in senso proprio esportazione), in ogni cosa la clausola di mutuo riconoscimento sarebbe ridondante.

[18]   Art. 27 bis Codici di condotta :

  1. Le associazioni o le organizzazioni imprenditoriali e professionali possono adottare, in relazione a una o più pratiche commerciali o ad uno o più settori imprenditoriali specifici, appositi codici di condotta che definiscono il comportamento dei professionisti che si impegnano a rispettare tali codici con l’indicazione del soggetto responsabile o dell’organismo incaricato del controllo della loro applicazione.
  2. Il codice di condotta è redatto in lingua italiana e inglese ed è reso accessibile dal soggetto o organismo responsabile al consumatore, anche per via telematica.
  3. Nella redazione di codici di condotta deve essere garantita almeno la protezione dei minori e salvaguardata la dignità umana.
  4. I codici di condotta di cui al comma 1 sono comunicati, per la relativa adesione, agli operatori dei rispettivi settori e conservati ed aggiornati a cura del responsabile del codice, con l’indicazione degli aderenti.
  5. Dell’esistenza del codice di condotta, dei suoi contenuti e dell’adesione il professionista deve preventivamente informare i consumatori